Da anni Susanna mi parlava del viaggio che aveva fatto in Sardegna prima di conoscerci. Il fascino selvaggio dell’isola le era rimasto scolpito nel cuore e voleva assolutamente che lo condividessi anch’io. Purtroppo fare trekking in Sardegna d’estate è un suicidio e, non avendo altri periodi di ferie disponibili, abbiamo sempre rimandato il viaggio. Finché, nell’anno domini 2019, si è presentato un irripetibile ponte pasquale e ne abbiamo approfittato per partire per l’isola.
Il primo giorno della nostra vacanza in Sardegna, Susanna aveva proposto di rifare un’escursione che partiva dall’altopiano del Golgo vicino a Baunei. In base al suo programma, avremmo dovuto salire fino ad un passo che portava sul versante a mare e, dopo un lungo tratto a mezza costa in alcuni punti esposto, saremmo tornati sull’altopiano attraversando l’arco di Serra ‘e Lattone sopra cala Mariolu.
In alcuni punti esposto.
Susanna è una escursionista prudente, mai si esporrebbe in situazioni men che sicure, eppure la postilla “in alcuni punti esposto” inserita nella magniloquente descrizione del percorso, era rimasta lì, ad aleggiare nei miei pensieri come il fantasma di un gatto nero.
L’inizio di quel giorno si presentò in modo smagliante: sole, cielo terso e aria fresca. La perfezione fatta mattina. Con la macchina salimmo dal paese di Baunei dove eravamo alloggiati fino all’altopiano del Golgo e, dopo uno sterrato in un paesaggio che ricordava una fitta savana africana, parcheggiammo all’ombra di un albero di ginepro. Come di consueto, prima di muoverci, accendemmo i nostri fedeli Gps. Sullo schermo del mio c’erano le normali tracce precaricate dei sentieri, su quello di Susanna invece era presente anche la registrazione del percorso fatto anni prima. Impossibile perdersi!
Ci incamminammo seguendo la traccia del gps di Susanna, dapprima in una strada carraia e poi in un sentiero vero e proprio che saliva sulla dorsale delimitante l’altopiano a est. Il tracciato correva incerto in un ambiente di bianca roccia calcarea punteggiata da arbusti di ginepro e talvolta addirittura spariva attraversando alcune nude e indistinte pietraie. He, ma noi c’avevamo San Gps a guidarci!
Dopo circa un’oretta di cammino in perfetta solitudine, proprio quando cominciavamo a pensare di essere gli unici in tutta la montagna, sentimmo inaspettatamente delle voci che provenivano da più avanti. Ohibò! Accelerammo il passo incuriositi e in breve raggiungemmo un gruppo di una dozzina di escursionisti fermo ad ascoltare uno spiegone della guida. Ebbi la precisa sensazione che avrei visto qualcuno che conoscevo. E infatti, prima ancora di capire chi e cosa, fummo assaliti dal festoso saluto di Salvo e Paola, compagni di tante escursioni. Stupore, baci e abbracci: una vera carrambata in mezzo al nulla! Esauriti i saluti, i nostri amici ci spiegarono che stavano facendo il leggendario giro del “Selvaggio Blu” e quando ripresero a camminare assieme al gruppo, Susanna ed io li seguimmo felici di scambiare racconti e risate. Bello bellissimo, ma dopo solo pochi minuti di piacevoli chiacchierate, il capogruppo cominciò ad apostrofarci come pecorelle che non appartenevano al gregge (sottinteso, pagante). Ahi! Poi, senza far passare molto tempo, tornò di nuovo alla carica dicendo che solamente 15 minuti di accompagnamento erano gratis (fine del sottinteso, ed eravamo anche già in mora). Ahiahi: o aveva uno scarso senso dell’umorismo, o ci voleva fuori dai piedi. Un po’ perplessi, io e Susanna demmo credito alla versione del pessimo umorista, ma quando il capogruppo si fermò ad un bivio suggerendoci di deviare, ci levammo ogni dubbio : si trattava di un pessimo umorista stronzo. Contrariati, “decidemmo” così di fermarci per staccarci dal gruppo e, dopo una breve sosta sigaretta, riprendemmo il cammino.
In prossimità del passo che ci avrebbe portato sul versante a mare, cominciarono i primi problemi. Non so perché, non so percome, bastò deviare di qualche metro dalla traccia Gps e riuscimmo a perderci. Cercammo di andare avanti svoltando, poi tornammo indietro, poi andammo a destra, poi a sinistra: qualsiasi direzione prendessimo, in pochi metri ci allontanava dalla traccia Gps. Mai successo! Fortunatamente a un certo punto sentimmo delle voci che venivano da più in alto e riuscimmo ad orientarci fino ad arrivare al passo. Senza sentire quelle voci saremmo ancora lì a girare per il Supramonte .
Giunti al passo ci aspettammo di rivedere i nostri amici che magari avevano fatto una digressione dal sentiero per vedere il mare da un punto panoramico. Invece trovammo un’altra comitiva del Selvaggio Blu. Poco importava. Questa volta ci accodammo alla compagnìa determinati a non mollarla, foss’anche stata una banda di contrabbandieri.
Piccola notazione, in Sardegna, salvo rarissimi percorsi, NON esistono bolli segnavia. Pare sia una politica per evitare che gli escursionisti si avventurino da soli senza pagare una guida. E, col senno che sarebbe arrivato poi, forse è giusto così!
Superato il passo, cominciammo a discendere in coda al gruppo un sentiero sassoso e ripidissimo con vista mare. Il colore dell’acqua era meraviglioso, quasi inverosimile, ma vedendolo laggiù, in fondo da un sentiero scosceso ed instabile, era difficile godersi lo spettacolo.
Giunti in mezzo ad una boscaglia dirupata, improvvisamente il gruppo si arrestò e la guida diede ordine di imbragarsi. Da lì sarebbero scesi in corda doppia fino al mare, e proprio lì la traccia Gps di Susanna virava decisamente a destra per costeggiare il pendio. Per noi la discesa era finita e sarebbe cominciato il cammino a mezza costa ad una quota più o meno costante di 200 metri sul livello del mare. Anzi, sul mare proprio!
Ci separammo dal gruppo seguendo la traccia indicata dal Gps di Susanna su un sentiero quasi invisibile…e infatti, dopo qualche centinaio di metri, non lo vedemmo più. Eravamo già impiantati. Secondo il Gps avremmo dovuto salire di qualche metro in diagonale sul crinale ma proprio in quel punto c’era una roccetta. Susanna salì un poco ma non riusciva a identificare un passaggio né una traccia che continuasse. Io mi ero fermato a guardare più in basso. Una traccia sembrava proseguire per qualche metro aggirando a valle la roccetta ma poi spariva in un piccolo pianoro senza apparenti vie d’uscita. Mancando valide alternative, Susanna insistette ad arrampicarsi sul costone assecondando la vecchia traccia presente nel suo Gps ma niente. Più saliva e più diventava evidente che quello non era un passaggio. Tornò infine verso di me e poco convinti decidemmo di provare a prendere la traccia di sentiero più in basso deviando dalla bibbia Gps. Questo volta andò bene. In breve il percorso e la traccia Gps di Susanna ripresero a coincidere confermandoci che eravamo sulla strada giusta. In ogni caso era la seconda volta che il Gps ci tradiva. Non sarà l’ultima.
Proseguimmo per una mezzorata buona senza ulteriori intoppi. Il viottolo su cui procedevamo correva incerto a picco sul mare in mezzo ai lecci e alla macchia mediterranea. Ogni tanto una radura faceva vedere il mare sotto di noi. Bellissimo, il mare, ma ormai una certa inquietudine si era intrufolata nel nostro umore. Parlavamo poco, solo brevi scambi. Non eravamo tranquilli. Chiesi dove diavolo avesse trovato quel sentierucolo che non compariva sulle mappe precaricate del mio Gps. Mi rispose che era su una cartina militare. Capii: solo in guerra uno poteva trovare qualche buona ragione per arrischiarsi a passare di lì.
Poi il sentiero prese a salire e in breve ci ritrovammo in un’ampia e scenografica cengia: da una parte una parete rocciosa verticale di almeno 200 metri e dall’altra una vista stupenda sul mare. Percorremmo la cengia completamente catturati dal fascino straordinario di quel luogo ma, dopo aver superato qualche masso, arrivammo improvvisamente alla fine del balcone di roccia. Qui si spalancò uno spettacolo che ci saremmo persi volentieri: un precipizio verticale da dove le onde del mare urlavano sbattendo contro le rocce. Mmmmh, di lì non si poteva certo passare. Indecisi sul da farsi tornammo sui nostri passi a cercare una via d’uscita e fu con autentico sollievo che a metà cengia trovammo un varco che scendeva aggirando il contrafforte di roccia.
Il sollievo fu di breve durata. Appena aggirata la falesia infatti, si parò davanti a noi uno sperone di roccia contro cui spariva il sentiero. Eravamo di nuovo bloccati. Guardammo. Susanna notò un tronco di ginepro precariamente appoggiato di sbieco sulla roccia che indicava e “agevolava”, alla Sarda, un preoccupante passaggio esposto; io notai delle roccette esposte ma facilmente arrampicabili che sembravano salire sulla parte alta dello sperone; insieme notammo una ripida pietraia che sembrava aggirare lo sperone più in basso. Merda merdissima. Il Gps non era di alcun aiuto: i due metri abbondanti di tolleranza della grossa traccia riportata sullo schermo, sul terreno potevano significare contemporaneamente la cima dello sperone come la base. Un conciliabolo sul da farsi ci portò ad escludere il passaggio sul tronco, troppo esposto ed instabile, e così tentai il passaggio sulle roccette. Arrivai in cima allo sperone arrampicandomi con qualche apprensione ma, lì giunto, mi resi conto che avrei dovuto ridiscendere dall’altra parte su dei scaloni esposti e senza essere sicuro di ritrovare il sentiero. Mi girai verso Susanna per raccontarle la mia scoperta e la vidi in equilibrio precario che stava cercando di scendere sulla pietraia. Le gridai di fermarsi, che era troppo ripido. Per una volta mi ascoltò, o meglio, si rese conto da sé che quella via non era percorribile. Con qualche difficoltà, io dalle roccette, lei dalla pietraia ci riunimmo sul sentiero con un inquietante certezza: per passare non c’era che il tronco di ginepro. Mi avvicinai alla rudimentale passerella con titubanza, poi ne saggiai la resistenza dondolando con un piede sopra di essa. Sembrava solida, anche se un po’ instabile. Alla fine mi aggrappai alla parete a salii sopra il tronco. Mi mossi lentamente ma senza fermarmi per non perdere inerzia e riuscii a superare senza troppe difficoltà quel breve passaggio sul precipizio. Proseguii sulla sommità dello sperone per verificare che il sentiero continuasse, continuava, e quindi tornai indietro. Ora toccava a Susanna e, sì, non ne avevo ancora fatto cenno, ma c’era anche lei, Yuma. Susanna era visibilmente spaventata da quel passaggio. Non che io non lo fossi stato, ma quando si è in coppia succede che le paure non siano mai equivalenti e, come per i vasi comunicanti, chi ha più coraggio ne versa a chi ne ha meno. Prese il cane per il collarino con una mano e con l’altra si aggrappò alla roccia. Avanzò di un paio di passi sul tronco, mentre io facevo la stessa cosa dalla parte opposta. Quando arrivammo all’ultimo appiglio utile per entrambi, ci sporgemmo l’un verso l’altra e Susanna allungò il braccio col quale teneva Yuma. Vidi due paia d’occhi terrorizzati che restarono fissi a guardarmi finché non riuscii ad afferrare il collarino di Yuma e a lanciarla sopra il costone. “Salvata” Yuma, la mamma della corazzata Potemkin si rinfrancò quel tanto da riuscire a passare sul tronco.
Da questo momento quella che doveva essere una piacevole escursione, si trasformò definitivamente in qualcosa d’altro. Chiesi a Susanna se ricordava di aver fatto un passaggio del genere e lei rispose di no. Conoscendo la sua prudenza la risposta non mi stupì: mai e poi mai si sarebbe ficcata serenamente in una situazione del genere, e men che meno l’avrebbe rifatto. Ma a questo punto sorgevano tutta una serie di interrogativi: era davvero quello il sentiero che aveva fatto anni prima? Era cambiata l’orografia per le frane? Avremmo trovato altri passaggi simili o addirittura peggiori? Il sentiero portava ancora da qualche parte o l’avremmo trovato interrotto? E infine, meglio proseguire o tornare indietro? Tenni questi interrogativi per me e lo stesso fece Susanna: nessuna risposta sarebbe stata piacevole. Proseguimmo taciturni nella speranza di non incontrare altri passaggi problematici, ma non riuscivamo a scacciare il pensiero che stavamo ficcandoci sempre più profondamente nei guai. Ormai volevamo solo uscirne, preoccupati sia di andare avanti che di dover tornare indietro.
Il “sentiero” proseguiva imperterrito, stretto e inclinato a valle, a volte protetto da una rassicurante macchia, a volte invece, esposto su una scarpata nuda che scendeva ripida verso il mare. In alcuni passaggi, piccole frane avevano addirittura inghiottito pezzi del tracciato e toccava camminare su francobolli di terreno. Mi morsi la lingua più volte per non coprire di improperi Susanna e alimentare ancora di più la tensione: gli insulti li avrei conservati per dopo.
Dopo una mezz’ora abbondante di cammino, improvvisamente Susanna si fermò ad un’ansa rientrante del tracciato. Intorno eravamo circondati da una vegetazione abbastanza fitta. Una vecchia frana di sassi e terra attraversava il sentiero e Susanna ne osservò attenta la conformazione puntando lo sguardo verso l’alto. Secondo le indicazioni del suo Gps, in quel punto esatto, anni prima aveva deviato dal sentiero a mezza costa per dirigersi a monte verso l’altopiano del Golgo. Guardò, riguardò. Guardai anch’io ma non si scorgeva alcunchè di somigliante ad una traccia percorribile. C’era solo un’instabile scarpata di sassi e terra. Osservammo più avanti, magari la deviazione era a qualche metro da noi, ma lì sporgeva un roccione che si ergeva liscio e verticale costeggiando la frana e non lasciava intendere passaggi. Perplessi e indecisi sul da farsi consultammo i Gps. Secondo gli strumenti, proseguendo a mezza costa per qualche centinaio di metri, avremmo dovuto incontrare un sentiero “ufficiale” che saliva dal mare fino all’altopiano del Golgo. Un giro diverso rispetto al previsto, ma poco male: era una via d’uscita.
Con qualche acrobazia superammo il terreno instabile della frana. Aggirammo il roccione verticale e, dopo aver attraversato un pericoloso passaggio con il sentiero spariva per un metro buono mangiato da un frana ripidissima, il tracciato riprese ad essere “percorribile”, anche se spesso esposto. Con i gps controllavamo i metri che ci separavano dal sentiero segnato e guardavamo con sospetto ogni piega del percorso davanti a noi timorosi di trovare nuovi inaspettati ostacoli. Incrociammo le dita.
Ma non bastò.
Dopo circa un quarto d’ora di cammino, improvvisamente la boscaglia sparì, e con lei anche il sentiero. Letteralmente inghiottiti. Una frana si era portata via un intero pezzo di montagna lasciando un lunga e profonda ferita color ocra che partiva una centinaio di metri sopra di noi e finiva giù in fondo fino al mare. La ferita era pure “lacerata” perché la frana, per una decina di metri, aveva trascinato con sé la parte superficiale del terreno che non era crollato; per cui, tra il punto dove spariva il sentiero e l’incavo formato dallo smottamento, c’era nuda terra compatta, scoscesa e senza vegetazione. Alcune tracce inclinate e sdrucciolevoli arrivavano al bordo dell’incisione della frana suggerendo un passaggio, ma davvero non ebbi cuore di metterci piede sopra per andare a verificare. Cazzo! Il Gps indicava che il sentiero “ufficiale” si trovava ormai solo a 150 metri da noi. Un’autentica beffa restare bloccati così vicini! Eravamo davvero frustrati e delusi, e stanchi di questa prova che non finiva mai. Tornammo un po’ indietro dove avevamo visto delle tracce che salivano puntando più in alto sulla frana. Forse avevano creato un nuovo passaggio.
Quando sbucammo sulla frana poco più in alto, si ripresentò lo stesso spettacolo. Ancora un accenno di sentiero si avventurava esposto fino al bordo della frana ma questa volta alcuni miseri arbusti consentivano un qualche appiglio. Un appiglio psicologico più che altro, ma bastò per decidere di tentare di avanzare quei pochi metri per vedere l’incisione della frana oltre il bordo e capire se era possibile l’attraversamento. Non volevo rassegnarmi a tornare indietro. Cominciai a camminare lentamente su quel labbro di terreno appena meno pendente del burrone. Con le mani cercavo appigli attaccandomi alla qualunque sperando che la suola delle scarpe non scivolasse sul brecciolino. Susanna mi urlò di fermarmi e di tornare indietro, ma ormai anche questo cominciava a diventare un problema. Proseguii ancora qualche metro, poi, quando si esaurì anche l’ultimo filo d’erba a cui appigliarsi, mi fermai. Ormai ero solo a qualche passo dal bordo della frana, non più di quattro metri. Il labbro di sentiero saliva un poco per poi svoltare a destra verso la profonda rientranza formata dalla frana. Osservai il fronte opposto dell’incisione ad una cinquantina di metri da me per identificare almeno una traccia che portasse al terreno intatto dall’altra parte. Non vidi nulla. Susanna continuava a gridarmi di non fare cazzate. Forse dal punto in cui si trovava sembravo in posizione ancora più precaria di quanto non fossi già. Esaminai il breve percorso che mi separava dal bordo cercando di capire se era davvero percorribile o se il piede sarebbe scivolato sul ghiaino fine depositato sul terreno pendente e compatto. Infine, per calcolare i danni di una possibile scivolata, guardai per la prima volta in basso: un lunghissimo scivolo color ocra si perdeva fin dove era possibile vedere. Verso il mare. Improvvisamente mi resi conto che già solo essere lì, precariamente attaccato ad un cespuglietto, era un’autentica cazzata. Proseguire, follia. Immaginai di cadere giù, sempre più velocemente, mentre con le mani e con le unghie cercavo disperatamente di appigliarmi a qualunque cosa, senza trovarla. Ebbi una sensazione di totale impotenza: se fossi scivolato non un albero o un cespuglio mi avrebbero fermato o rallentato, né un colpo di reni mi avrebbe fatto deviare da quel pendio nudo. “Forse” non era il caso di proseguire. Mi girai e tornai sui miei passi e i sui miei appigli muovendomi lentamente, come per non far accorgere alla montagna che ero lì, e quando riguadagnai la boscaglia tirai mezzo sospiro di sollievo. Mezzo: ero sì salvo, ma anche definitivamente consapevole che non c’era modo di passare. E proprio ad un passo dalla meta.
Susanna diede voce all’inevitabile conclusione dei nostri pensieri: “Torniamo indietro”. Queste parole infransero anche la più debole speranza di cavarsela in breve tempo ed accese la mappa mentale dei passaggi pericolosi che avremmo dovuto rifare. Eravamo, o almeno, io ero psicologicamente esaurito. Basta!
Ci incamminammo lasciandoci alle spalle la frana ed attesi un po’ prima di fare una domanda di cui temevo la risposta: “Torniamo dove?”. Il pensiero di ripercorrere tutti i passaggi che ci avevano portato fin lì mi inquietava. “Torniamo al punto in cui il Gps indicava di risalire” rispose laconica Susanna, sottintendendo che avremmo dovuto cercare quello che non avevamo trovato prima, che probabilmente avremmo dovuto sgarruparci a casaccio sulla montagna e che forse il passaggio era solo una riga sul Gps e non esisteva più. La sua risposta, paradossalmente, mi rasserenò un poco.
Per tornare alla deviazione c’era solo un passaggio preoccupante, quello del metro di sentiero franato. Lo affrontammo di slancio e ci stupimmo del fatto che, al ritorno, sembrasse meno impressionante. Ma forse, semplicemente, eravamo troppo preoccupati dei casini sconosciuti per soffermarci su quelli noti.
Giungemmo infine nel punto in cui la traccia del Gps di Susanna virava bruscamente per salire sulla montagna. Di nuovo guardammo con attenzione lo scivolo di sassi e terreno che saliva a perdita d’occhio in mezzo alla boscaglia ma stavolta Susanna, senza dire una parola, cominciò a inerpicarsi. Saliva, saliva con Yumetta che le saltellava dietro felice dell’avventura. Io rimasi fermo sul sentiero in attesa di istruzioni. Guardai il cielo. Le previsioni del tempo davano pioggia dopo le cinque e infatti una densa nuvolaglia si era presentata all’orizzonte sopra il mare. Andiamo male, pensai, anzi no, peggio. Nel frattempo Susanna continuava a salire silente e determinata facendo rotolare pietre dietro di sé. Le chiesi gridando se vedeva tracce di sentiero. Non rispose nulla: o non mi aveva sentito o era troppo concentrata o non voleva darmi brutte notizie. Fatto sì è che non riconoscevo più la Susanna apprensiva e prudente con cui avevo fatto decine di escursioni, al suo posto vedevo un panzer tedesco che saliva sulla scarpata malferma a testa bassa e senza indecisioni. Vedendo infine Susanna sparire nella boscaglia, decisi di muovermi anch’io e cominciai a salire usando piedi e mani e aggrappandomi a tutto ciò che vedevo: alberi, cespugli, radici sporgenti, rovi, pietre, la nuda terra. Non sentivo più niente. Salivo e basta franando di mezzo passo ad ogni passo. Sulla sinistra mi accompagnava l’inaccessibile e scosceso roccione che si ergeva facendo da sponda al terreno franoso. Avevo ormai guadagnato un centinaio buono di metri quando, più sopra, vidi Susanna che tornava indietro, sconfitta: non aveva trovato nessuna traccia percorribile. La mia delusione durò solo un attimo. Poi mi salì il crimine. Le dissi di fermarsi, avrei proseguito io.
La superai rabbioso gattonando anche con le unghie cercando appigli dappertutto sul ripido pendio. Non guardavo niente, solo dove mettere mani e piedi. Sembravo un matto. Continuai a salire per un quarto d’ora finché improvvisamente mi ritrovai in cima al terreno franoso. Qui intuii una traccia di sentiero che saliva in mezzo all’erba, e la presi senz’altro. Era solo un’intuizione ma bastò per farmi proseguire di buona lena. Adesso mi trovavo ad inerpicarmi in mezzo al bosco su un terreno erboso più solido. La pendenza era rimasta elevata ma almeno ogni passo era sano. Talvolta, dall’alto, si sentiva il sinistro schiocco di pietre che cadevano da una grande altezza per poi rotolare accanto a me, superandomi. No buono.
Dopo essere salito di un bel pezzo cercando le parti meno aspre del pendio, mi fermai a prendere fiato e a fare il punto. Allungai lo sguardo in alto sul pendio attraverso il fitto del bosco. In fondo si intravedeva un po’ di luce, ma non era la fine della montagna bensì il riflesso del sole su una nuda e possente parete di calcare che si parava sulla mia verticale e continuava verso destra senza soluzione di continuità. Una vera e propria muraglia. Più a sinistra invece, un masso a ridosso della parete sembrava nascondere un varco che portava sopra uno sporgente sperone di roccia. Quello stesso che mi aveva accompagnato per tutta la salita e che, finalmente, mostrava la sua fine con un ciuffo d’alberi in cima. Mi accomodai nell’incavo tra un albero e il terreno per non scivolare e feci voce a Susanna di raggiungermi. In realtà non avevo nessuna buona notizia da darle, ma eravamo ad una svolta. Non era più possibile salire a sgarrupo: o si trovava un passaggio tra i contrafforti rocciosi, o avremmo dovuto tornare indietro. Serviva la traccia Gps di Susanna ma soprattutto non volevo mettermi subito a cercare un passaggio e deludere le mie ultime speranze nel caso, più che probabile, non l’avessi trovato. Yumetta nel frattempo mi aveva raggiunto scodinzolante, Susanna era vicina. Sentivo i suoi passi che salivano nella boscaglia, rumori secchi di ramaglie rotte. La chiamai e lei rispose. Ma non stava salendo dove mi ero accomodato bensì dietro ad un masso alla mia destra. Sentii che proseguiva senza tentare di raggiungermi ma rimasi dov’ero senza dire altro. Alla fine la vidi, più in alto. Aveva raggiunto la parete verticale di calcare. Non si trovava in una bella posizione perché era proprio lì che cadevano i frammenti di roccia che poi rotolavano per il pendio. Le chiesi se vedeva qualcosa e rispose che sulla sinistra c’era un grosso masso che sembrava nascondere un passaggio verso la cima di uno sperone. Sì, quello stesso che avevo visto anch’io. Evidentemente anche da lì sembrava promettente. Susanna andò verso il masso, guardò e infine sentenziò a voce alta: “da qui non si passa”. Immaginai di dover tornare indietro e non fu un bel pensiero. Guardai l’ora. Le quattro. C’erano ancora quattro ore e mezza di luce e a quel punto sarebbero servite tutte…sempre, naturalmente, che non avesse anche cominciato a piovere.
Da dove mi trovavo avevo una visuale diversa rispetto a quella di Susanna. Sulla mia sinistra, poco più in alto, notai che lo sperone di roccia col ciuffo d’alberi si ergeva dal terreno del pendio solo di una decina di metri prima di appiattirsi, e la conformazione era frastagliata. Tanto valeva tentarle tutte. Gridai a Susanna di andare a sinistra, verso la roccia che sporgeva dalla parete calcarea. Susanna andò, guardò e questa volta disse: “da qui sembra che si passi!”. Mi alzai di scatto da dov’ero e, salendo come una furia tra alberi e sterpaglie, raggiunsi la base dello sperone. Susanna e Yuma erano già salite sul facile passaggio dove le mani servivano solo per appoggiarsi. Fantastico!
Saliti in cima, il terreno acquistò una certa orizzontalità e ci accorgemmo che non ci trovavamo su uno sperone bensì su un contrafforte da dove il pendio della montagna si elevava più dolcemente. Non solo, poco avanti si ergeva un muretto a secco: la prima traccia di manufatto umano da mò! Il cuore cominciò ad allargarsi. Salimmo sul muretto e ci trovammo su uno spiazzo semicircolare di una ventina di metri di diametro. A cosa serviva? Non c’era neanche un rudere di casa a giustificarlo. Era un luogo di antichi riti sacri? Poco importava. Era un luogo pianeggiante, ed era il primo che avevamo incontrato da quando avevamo lasciato la macchina. Avremmo scoperto poi, dai racconti di una guida, che si trattava di una delle tante carbonaie sulle quali, nel 1800, era stato sacrificato quasi tutto il patrimonio boschivo della Sardegna per produrre carbonella da vendere.
Guardammo se da lì partiva una qualche traccia, ma intorno a noi c’era solo bosco. Niente da fare.
Improvvisamente Susanna cacciò un urlo. Mi girai preoccupato e la vidi accucciata con un paio di occhiali da sole in mano e lo sguardo di un cercatore d’oro che aveva appena trovato una pepita: qualcuno era già passato di lì! A lei sembrava una grande notizia, a me invece non tanto senza sapere che fine avesse fatto il proprietario degli occhiali. Per quanto mi riguardava, poteva anche essere stato inghiottito da un precipizio poco dopo averli persi. Finsi partecipazione, non era il caso di fare il cacadubbi e avvilire l’entusiasmo di Susanna.
Ci togliemmo gli zaini e ci sedemmo sul muretto a secco per rilassarci un po’ in quel luogo sicuro. Un autentico lusso e, anche senza aver trovato vie d’uscita, per ora ci bastava.
Dopo poco, e senza dire una parola, Susanna si alzò come posseduta da uno spirito della montagna. Attraversò lo spiazzo e quindi si addentrò nel bosco senza neanche prendere lo zaino.
Io restai dov’ero. Volevo godermi il momento di tranquillità e la sensazione di essere ormai fuori dai casini, o quanto meno dai pericoli. Presi l’ultima sigaretta del pacchetto: quel momento andava celebrato. Sorridendo, pensai che sarebbe stato paradossale precipitare da un dirupo avendo ancora nello zaino l’ultima sigaretta conservata per momenti migliori.
Finito di fumare mi alzai. Diedi un’altra occhiata ai confini dello spiazzo per identificare un eventuale sentiero, poi mandai una voce nella direzione in cui era sparita Susanna. La risposta, inaspettata, fu: “ho trovato!”.
Non chiesi altro. Non ero sicuro di voler sapere cosa avesse trovato, magari un altro paio di occhiali. Susanna ricomparse dopo 5 minuti buoni seguendo i miei richiami. Ritornò da più in alto rispetto a dove era partita ed aveva un sorriso inequivocabile: aveva trovato un sentiero. Prendemmo subito gli zaini e ci tuffammo nel bosco.
Dopo una breve salita, arrivammo ad un altro muretto di sassi. Lo superammo e questa volta mettemmo i piedi su un largo sentiero che sembrava vero vero. A destra saliva sul pendio, a sinistra proseguiva dritto e piano costeggiando la montagna. Un sentiero così ben definito, con addirittura un muretto a secco di sostegno, doveva essere sicuramente segnato sul Gps. Controllammo. Non lo era. In compenso la vecchia traccia Gps di Susanna correva parallela al sentiero un poco più in basso. Alle brutte saremmo scesi un po’ per riprenderla. Inoltre, sullo schermo di entrambi i Gps, compariva a qualche centinaio di metri il sentiero che dalla spiaggia Mariolu risaliva l’altopiano del Golgo. Quello stesso che non eravamo riusciti a raggiungere impediti dalla frana. Buone notizie. No, ottime.
Ci avviammo spediti sul viottolo pianeggiante. Ricominciammo a chiacchierare anche, ma con lo sguardo cercavamo preoccupati eventuali ostacoli che ci avrebbero nuovamente sbarrato la strada: una frana, la colata lavica di un improvviso vulcano, una voragine formata dal distacco delle placche continentali, un drago viola addormentato…ormai ci aspettavamo di tutto. Sembrava troppo bello essere usciti dai guai. Ma era effettivamente così.
Quando finalmente arrivammo al sentiero segnato dal gps, trovammo addirittura un bollo segnavia: il primo da quando eravamo partiti! Gli facemmo una foto e, poi, ci abbracciammo felici.
Da quel momento, fu solo fatica fino all’arco di Serra ‘e Lattone.
Né piovve.