Il viaggio in moto era andato bene: Milano-Passo Gavia (BS) 2 ore e mezzo. Pur non essendo un record mondiale stava comunque a dire che era andato tutto liscio.
Mi ero iscritto al trek del ghiacciaio dei Forni ma non avevo voglia di sorbirmi l’avvicinamento del primo giorno, per cui avevo deciso di raggiungere il gruppo nel tardo pomeriggio di sabato direttamente al rifugio.
Il gruppo non era ancora arrivato per cui, dopo aver ricoverato la moto nel piccolo garage-retrobottega-ripostiglio del rifugio mi sono sdraiato su una panca all’esterno a godermi gli ultimi raggi del giorno.
Oltre ai raggi, mi sarei volentieri goduto anche un bel sonnellino se un povero bimbo di nome Matteo non fosse stato continuamente vezzeggiato in tutte le tonalità immaginabili da uno sterminato gruppo di parenti che sostava vicino a me. Matteo qui, Matteo lì, come fa il cane, come fa il gatto, come fa la giraffa, din din, din don, clap clap, iiiiiiiiiih, corri, non correre. Alla fine, e finalmente, se ne andarono ma nel frattempo il sole era calato oltre la linea dei monti lasciando il posto alla luce indiretta della sera. Cominciava anche a fare freddo.
Andai a guardare il sentiero.
Eccoli. Lontano. Nella valle.
Arrivarono a piccoli gruppi, affannati dall’ultima, ripida salita prima del rifugio e quando furono tutti radunati, Lorenzo cominciò ad esibirsi in una svogliata replica della piece “Ultime istruzioni prima di entrare in rifugio e disfare lo zaino”.
Qui la vidi.
Nel cerchio facente capo a Lorenzo era “finita” accanto a me e mi guardava accogliente. Sembrava mi conoscesse da tempo o che avesse qualcosa di importante da comunicarmi.
Mi disse qualcosa per stabilire un contatto.
Io risposi educato ma nulla più. Ogni mia energia era assorbita da quel suo sguardo strano e dal tentativo di inscatolarlo da qualche parte nel mio cervello. Ma non avevo confezioni adatte: non assomigliava a niente di già visto.
Il giorno dopo si partì presto per salire verso il ghiacciaio. Il sentiero si inerpicava su un brullo versante senza dare variazioni alla visuale.
Camminando, di tanto in tanto scalavo qualcuno del gruppo per avvicinarmi a lei. Provavo piacere quando le ero vicino e quando i nostri sguardi si incontravano e avevo la sensazione che il piacere fosse ricambiato. Poi, per non alimentare sospetti o difese, lasciavo passare alcuni compagni di gita e mi allontanavo da lei. Lei non era magrissima ma i calzoncini che lasciavano alla vista le lunghe gambe piene, fasciavano dei fianchi inaspettatamente agili. Ero indeciso. Cercavo di capire se era un cosone o una delizia…ma più passava il tempo e più mi orientavo verso la seconda ipotesi. Alla fine dell’escursione ero innamorato!
Ma non feci nulla: non riuscii a trovare l’occasione per chiederle il numero di telefono (balle! non riuscii a trovare il coraggio!).
A dirla tutta, quando verso sera tornammo al rifugio, non riuscii neppure a salutarla. Fu la prima del gruppo a trovare un passaggio in autostop fino a Santa Caterina dove avrebbe preso l’autobus per tornare a Milano. E la persi di vista.
Il numero lo trovai sulla guida telefonica.
Lo usai e funzionò.
-Ciao-
-Ciao. Chi sei?-
-Sono Fabio. Quello che non hai fatto in tempo a salutare in montagna. Dov’eri sparita?-
L’esitazione dall’altra parte durò pochissimo. Mi inquadrò praticamente subito e prese a parlare contenta di sentirmi.
Chiacchierammo un po’ del più e del meno e alla fine lei, LEI, propose di vedersi due giorni dopo.
Due giorni dopo. Appuntamento alle sei del pomeriggio davanti all’ufficio dell’organizzazione di trekking: doveva ritirare una carta geografica del Trentino.
Arrivò in bicicletta, leggermente in ritardo.
La vidi che era a pochi metri da me. Non ho una vista di falco per cui tra il vederla e il riconoscerla passò qualche istante durante il quale mi chiesi se era verosimile che fosse venuta ad un primo appuntamento con un paio di vecchi pantaloni rossi con le bretelle stile anni 70. Invece era proprio lei ed era venuta con un paio di pantaloni rossi con le bretelle stile anni 70.
Si fermò non troppo vicino e scese dalla bici.
Era molto titubante come se non mi riconoscesse, o meglio, come se mi riconoscesse. Sembrava in qualche modo volersi nascondere dietro la bicicletta ma siccome l’esercizio non le riusciva tanto bene alla fine si risolse e mi venne incontro.
Attaccai con un:
-Ciao come va?- cercando il migliore dei miei sorrisi.
-Bene e tu?-
-Bene.-
Qui ci fu anche un tentativo di baci sulla guancia ma lo slancio era così smorto che forse neppure ci sfiorammo.
-Scusa per il ritardo ma…(una scusa per il ritardo)-. – Dovrei legare la bici.- aggiunse poi.
Si guardò in giro e alla fine decise che il posto migliore era dall’altra parte della strada vicino ad un lampione. Attraversò subito, lasciandomi impalato sul marciapiede.
Quando riuscii a raggiungerla, dopo aver aspettato che passasse una lunga fila di macchine, lei stava armeggiando sul catenaccio della bici con una dedizione inconsueta. Sembrava che volesse prendere tempo per scacciare l’imbarazzo.
Quando ebbe finito, riattraversammo la strada e suonammo al campanello dell’organizzazione di trekking.
Giacomo ci accolse con l’aria gioviale ed educata sua solita e questo aiutò a ridurre il disagio fra me e lei. Le consegnò la mappa e la guida turistica del Trentino e al momento di andarcene, dato che ormai era ora di chiudere l’ufficio, Giacomo ci invitò ad accompagnarlo. Accettammo l’invito “di slancio”: era una insperata ciambella di salvataggio per rimandare l’imbarazzo di stare soli.
Dopo un po’ che camminavamo chiacchierando “delle prospettive future e dei risvolti socio-economici di un’associazione di trekking”, ebbi l’impressione che stavamo andando da nessuna parte. -Dove hai parcheggiato la tua macchina?- chiesi allora a Giacomo. Lui, dapprima mi guardò un po’ stupito, poi rispose –Ma io non sono venuto in macchina-.
Panico.
Non ero certo venuto lì per fare l’accompagnatore di Giacomo! E a Milano, per non sembrare dei perdigiorno, è assolutamente vietato improvvisare. E così, a malincuore, salutammo Giacomo sapendo che con lui se ne sarebbe andato anche l’alibi del nostro essere insieme.
Restava l’aperitivo.
Da buon maschio eterosessuale e disorganizzato, non avevo la minima idea di dove trovare un bar decente, e men che meno in quella zona. Comunque la moda degli “happy hour” era attecchita talmente bene che ormai non era più necessario essere un viveur per trovare un buon posto per un aperitivo: bastava guardarsi in giro.
Una scritta arancione sopra ad una vetrina diceva “Technical american bar”. Un nome perfetto per un locale poco accogliente ma non era il caso di rischiare giri a vuoto per cercarne un altro. Entrammo, il locale era poco accogliente, appunto. Ci sedemmo ad un tavolino e ordinammo un Negroni ed un Martini.
Seduti uno davanti all’altra, sembravamo due sconosciuti costretti a condividere un tavolo in un ristorante troppo pieno e che per pura educazione cercavano di scambiarsi qualche parola. A tratti il discorso si faceva anche interessante ma non riusciva a decollare veramente. Io mi sforzavo continuamente a trovare nuovi argomenti e fare domande. Lei rispondeva senza entusiasmo e, dopo poche parole, faceva precipitare il dialogo. Dopo tre o quattro cicli cominciavo ad essere stremato. Cercavo il suo sguardo anche, ma non riuscivo più a sintonizzarlo su di me: guardava fuori dalle vetrine, faceva oscillare il bicchiere di Martini o si concentrava sul fumo della sua sigaretta. Insomma, non riconoscevo più niente di quello che mi pareva di aver visto incontrandola in montagna. Cos’era successo? Per interrompere quella serie faticosa di inanimate parole improvvisamente dissi – Non hai lo stesso sguardo e gli stessi occhi di quando eravamo in montagna. Come mai? -.
Lei fermò i pensieri e mi guardò stupita.
–Sono timida- rispose infine lasciando a sé tutte le porte aperte e a me un pugno di mosche.
Ero deluso e scoraggiato. Così, perso per perso, mi lasciai andare a parlare senza più preoccuparmi di coinvolgerla in un dialogo. Cercavo ancora il suo sguardo, questo sì. E speravo di tranquillizzarla, di sciogliere il suo disagio.
Invece, ad un certo punto, la sua mano si posò sul posacenere in centro al tavolino e cominciò a farlo ruotare lentamente.
Quando me ne accorsi mi bloccai. Qualcosa era scaduto: il suo tempo o la voglia di stare con me.
-Vuoi che andiamo?- chiesi.
Sembrava non aspettasse altro.
-Oh si, è tardi per me- rispose pronta – devo essere a casa perché…-
Ma già non ascoltavo più.